UNA FASTIDIOSA PESANTEZZA
Bucco si stese nel letto. Si tirò le coperte fin poco sotto il naso, comunque a coprire con attenzione la bocca e qualche pelo di baffo fuori misura, che gli disturbava la linea dolce del labbro superiore. Gli occhi, fissi al soffitto, miravano il grande tondo del lampadario che troneggiava in mezzo alla stanza. Lo star lì a seguire con gli occhi le incurvature delle decorazioni tra il marrone e l’aranciato era stato da sempre un gioco prima che il sonno avesse il sopravvento su di lui.
Bucco, quella sera, si coricò prima del solito. La scelta d’andarsene anticipatamente a letto era stata dettata, se non addirittura imposta, da un raffreddore che, pur minimo e banale, e in ogni caso soltanto roba di stagione, lo infastidiva e lo indolenziva tutto ormai da un paio di giorni. Un leggero mal di capo, che non poteva di certo essere letto neppure come un semplice inizio di sinusite, ugualmente lo disturbava e gli faceva intendere che qualora gli avesse dato troppo conto, da lì a poco, si sarebbero insinuati dentro di lui e soprattutto dentro quelle sue insicurezze, che si trascinava dentro fin dall’infanzia, tremiti e cattivi pensieri.
Quasi come se non se ne fosse accorto smise il gioco di seguire con gli occhi le incurvature delle decorazioni tra il marrone e l’aranciato e spense il grande tondo che dall'alto illuminava la stanza. Chiuse delicatamente gli occhi e si predispose buono buono ad attendere che il sonno lo invadesse: un’abitudine coltivata da anni con successo era quella di pensare, per agevolare proprio la venuta del sonno, di allontanare da sé, a partire dalle dita dei piedi, ogni parte del suo corpo. Solitamente gli era sufficiente giungere all’incavo delle cosce per addormentarsi profondamente. Quella notte non fu così.
Al piano superiore, infatti, qualcuno aveva cominciato a camminare con una fastidiosa pesantezza. A Bucco parve che l’inquilino del piano di sopra prestasse molta attenzione nel compiere i passi: un piede dopo l'altro quasi come seguisse un ritmo mandato, in altri tempi, a memoria. Nonostante abitasse da anni in quell'appartamento e da sempre, da quando vi era traslocato, avesse dormito in quella stanza e nonostante l’inquilino del piano di sopra fosse lì anche lui da anni, di certo nulla più che sbrigativi buongiorno e buonasera nel caso si fossero incontrati in ascensore, mai si era accorto di quel camminargli di sopra con insistenza e forse in tondo come fosse un qualcosa di rituale e atavico e ciò gli parve cosa curiosa. Soprattutto curioso parve a Bucco l’essersi accorto della diversità di peso e suono tra un passo e l’altro quasi che uno dei due piedi, ma gli era del tutto impossibile comprendere se fosse il destro o il sinistro, avesse qualche parte metallica anche se mai si era accorto, nei veloci occasionali incontri, che l’inquilino del piano di sopra avesse qualcosa di anomalo tant’è che neppure la camminata, del tutto normale, nulla lasciava intendere. Eppure quella differenza di peso e di suono tra un passo e l’altro parve a Bucco possedere un qualcosa di misteriosamente sinistro. Poi, quasi all'improvviso tutto si tacque.
Bucco con pazienza cominciò nuovamente a separarsi dal corpo a partire dalle dita dei piedi. Fu solo per poco, non giunse neppure a una delle caviglie che un colpo forte, sordo, e poco dopo un altro colpo forte, sordo, identico al precedente lo distrassero e lo dissuasero dal proseguire nella sua metodica e forse ossessiva ricerca del sonno. Si tirò all’insù uscendo fino all’ombelico dalle coperte, appoggiò la schiena al cuscino e poi ancora più su alla spalliera del letto. Accese il grande tondo del lampadario che troneggiava in mezzo alla stanza, ma non pensò neppure per un attimo a seguire con gli occhi le incurvature delle sue decorazioni tra il marrone e l’aranciato.
Bucco, dopo che nessun rumore giunse più dall’alto, pensò che il camminatore di sopra avesse deciso anche lui di coricarsi e di levarsi, purtroppo senza troppa attenzione a chi vi fosse di sotto, entrambe le scarpe: una di qua, l'altra di là.
Finalmente il silenzio, proprio ciò di cui aveva bisogno Bucco per abbandonarsi al sonno e dimenticarsi magari anche del leggero mal di capo. Spense la luce, scese di nuovo sotto le coperte ma decise di rovesciarsi a pancia in giù, come era da tempo sua consuetudine nelle notti un poco agitate: solitamente il solo rovesciarsi a pancia in giù gli permetteva di arrendersi in breve al sonno senza star lì neppure ad abbandonare minuziosamente fuori di sé ogni parte del suo corpo a partire dalle dita dei piedi.
Quella sera ciò non accadde.
Ben presto sentì di nuovo quel fastidioso camminare e subito notò come fosse ancora ben percepibile, se non ancora più di prima, la diversità di peso e suono tra un passo e l’altro. Si ripose supino, si tirò le coperte fin poco sotto il naso e portò gli occhi al soffitto. A luce spenta il grande tondo del lampadario che troneggiava in mezzo alla stanza gli sembrò solo una sfera grigiastra dai bordi smangiati e anche in quella sfera ravvisò qualcosa di sinistro e un sussulto di freddo gli percosse tutto il corpo. Quel sussulto divenne tremito violento quando si accorse che quel camminare insistente non proveniva più dal soffitto ma dalla parete davanti al letto, proprio dietro il vecchio armadio di giacche, pantaloni e camicie. In un balzo fu fuori dal letto, infilò alla cieca le pantofole, accese la luce del lampadario in mezzo alla stanza, si diresse verso l’armadio, ne aprì le ante, smosse con furia giacche, pantaloni e camicie… ovviamente quel camminare lungo la parete continuò al di là dell’armadio. Bucco si rese conto che le sue ansie e le sue paure lo stavano mandando fuori di testa e lo spingevano a compiere gesti inconsulti come quello di smuovere con furia giacche, pantaloni e camicie, senza ovviamente alcun risultato.
Bucco tornò verso il letto, prima di coricarsi si sedette sul bordo, accese l’abat-jour sul comodino, spense la luce del lampadario al centro della stanza, inforcò gli occhiali, che aveva come sempre riposto alla base dell’abat-jour, apri il cassetto del piccolo mobile accanto al letto e cercò, quasi con affanno, la piccola scatola bianca e blu d’un farmaco che sovente era riuscito a dar quiete alle sue ansie, estrasse dalla scatoletta una pastiglietta rosa, fu indeciso se spezzarla a metà, poi si risolse di prenderla intera.
Rassettò lenzuola e coperte, che erano tutte un gran groviglio per via della brusca alzata di poco prima, si coricò nuovamente, ma questa volta non fece neppure in tempo a tirarsi il tutto fin poco sotto il naso: il fastidioso rumore della camminata che proveniva dalla parete dietro l’armadio si rifece sentire e, a dire il vero, più forte di prima. Bucco, sul quale cominciava a fare effetto la pastiglietta rosa ansiolitica, non aveva nessuna voglia, ma soprattutto forza di alzarsi nuovamente. Cominciò a girarsi e rigirasi nel letto alla ricerca della posizione migliore per prendere finalmente sonno; mentre si avvoltolava tutto nelle lenzuola, quasi legandosi, si ricordò di quei tappini da infilarsi nelle orecchie che aveva acquistato per poter far fronte agli stridii del bimbo di sotto, un marmocchio di pochi mesi che spesso gorgheggiava piagnucoloso nel cuore della notte. Allungò alla cieca il braccio, aprì il cassetto del comodino e ben presto trovò il flaconcino in plastica che conteneva i benedetti otturatori auricolari. Ne estrasse, sempre alla cieca, due che si infilò con forza nelle orecchie. Si districò tra le lenzuola per mettersi supino e cominciare ad allontanare da sé il proprio corpo iniziando dalle dita dei piedi.
Ben presto si accorse che il rumore della camminata aveva lasciato soffitto e parete e si era infilato nella testa e rimbombava come non mai.
Infuriato s’alzo di scatto dal letto e quasi dimentico degli effetti dell’ansiolitico barcollò tanto da perdere l’equilibrio e, complice una cocca di lenzuolo terminata a terra, cadde disteso. Con non poca fatica si alzò e quasi a tastoni si recò in bagno. Davanti al water si abbassò i pantaloni del pigiama e si preparò per pisciare e fu in quel preciso momento che con terrore si accorse che il rumore dei passi veniva su con forza, nonostante i tappi nelle orecchie, dalla tazza del bidé li accanto. Atterrito Bucco decise di affrettare, per quanto possibile, il passo e recarsi nello studio dove, tra i suoi libri, aveva sempre trovato pace e serenità.
Ormai non aveva più sonno e il leggero mal di capo si era trasformato in una forte emicrania e il persistente colare di muco dal naso e i continui starnuti l’avevano reso convinto che ormai si era andati ben oltre una semplice sinusite. Si sedette sul seggiolone a dondolo, allungò la mano sulla scrivania e afferrò il primo libro che gli capitò a tiro: “I sessanta racconti” di Dino Buzzati. Proprio quello che ci voleva commentò fra sé Bucco che ripose il libro, che riteneva ottimo ma al contempo foriero di nuove ansie.
I passi ormai sembravano farsi serrati e oltre il rumore ormai sentiva anche il peso di quelli. Sì, il peso, perché ormai erano su di lui, dentro di lui e calpestavano e calpestavano. Ormai era l’alba, anzi passata l’alba. Bucco si risolse di uscire da casa e scendere per via. Infilò il giaccone sopra il pigiama e si recò alla porta che dava sul pianerottolo. Con sua sorpresa si accorse che quella era aperta, anzi spalancata e benché fosse convinto di averla ben chiusa la sera prima di coricarsi uscì, mentre da sotto, di fianco e di sopra si affollavano i vicini incontro a lui. Stralunato e confuso salutò tutti con gentilezza. Salutò la famiglia di sotto col marmocchio che spesso gorgheggiava piagnucoloso nel cuore della notte, salutò con cortesia pure il vicino di sopra all’origine di tutta quella notte agitata e senza riposo. Incontrò e fece loro reverenza la due bigotte dell’altra scala che già snocciolavano sbiascicando il rosario. Nessuno comunque di loro rispose né altri.
Scese a piedi le scale infiltrandosi tra una moltitudine di persone del condominio, ma anche della piazza, ma anche delle vie vicine e pure di quelle lontane, qualcuno aveva preso l’automobile per giungere lì, qualcuno perfino il treno: Bucco salutava tutti, ma inutilmente poiché nessuno rispondeva. Alla fine giunse nell’androne, salutò la custode che ovviamente non rispose. Si portò verso la strada, la gente continuava ad arrivare, certo lui salutava tutti perché tutti conosceva, ma nessuno rispondeva. Nel frattempo il raffreddore, o forse qualcosa di più, se ne era andato così come lo aveva lasciato il fastidioso rumore dei passi che tanto lo aveva scosso la notte.
Stava bene. Sì girò verso il portone che aveva appena varcato e vide sul portello di sinistra un gran fiocco grigio a lutto, si avvicinò a leggere e lì scorse il suo nome.
Il marmocchio di sotto all’improvviso tirò uno strillo che superò anche il ronzio del televisore davanti al quale Bucco si era addormentato. Si strofinò gli occhi e decise che ormai fosse giunta l’ora di lasciare il divano e recarsi a letto.