TEATRO ELFO PUCCINI/GORLA FERMATA GORLA - TEATRO DELLA COOPERATIVA/MURI

13.03.2018 11:05

E Giulia continua a volare

 

No, non si fa, o almeno non lo si dovrebbe fare. Dicono che non sia corretto che uno che scrive di teatro faccia uscire le sue recensioni dopo l’ultima replica dello spettacolo, quando nulla di quanto scritto possa più servire al lettore in procinto d’essere spettatore. Questa volta lo faccio con due spettacoli visti nel giro di una decina di giorni. Gli spettacoli in questione sono “Gorla fermata Gorla” e “Muri”, entrambi scritti e diretti da Renato Sarti e entrambi prodotti dal Teatro della Cooperativa; uno visto in una affollatissima Sala Fassbinder all’Elfo Puccini (26 novembre), l’altro nell’affollatissima platea del Teatro della Cooperativa (6 dicembre).

In entrambi i casi due raffinati testi, molto e assai ben documentati. “Gorla fermata Gorla” è la cronaca, drammaturgicamente ben governata dalla regia, di quanto avvenne nella tragica mattina del 20 ottobre 1944, quando, per una serie di drammatiche combinazioni scellerate, una delle bombe rimaste e quindi scaricate si infilò nella tromba delle scale di una scuola elementare, finendo nella cantina rifugio uccidendo 184 bambini. “Muri” è un gran monologo sulla psichiatria prima, durante e dopo Basaglia, e mi ha coinvolto maggiormente, non fosse altro che, per età e storia, sia più vicino alla materia trattata.

In “Gorla fermata Gorla” bravi i giovani Federica Fabiani e Matthieu Pastore, che danno voce ai bambini che quel giorno persero la vita. Belle, in entrambi i lavori, le scene di Carlo Sala, più “liquida e poetica” con la proiezione di delicate immagini in “Gorla”, più tetra, angosciante e forse più significante in “Muri”.

Tutti e due gli spettacoli, brevi, ma essenziali, e duri (soprattutto “Muri”) sono impreziositi dalla grande interpretazione di Giulia Lazzarini. E anche in questo caso, anzi in questi due casi, “Sulla scena la vera magia è la parola” come disse la stessa Lazzarini a Roberto Mussapi in un’intervista a “l’Avvenire” qualche anno fa.

Sì, quella parola che Giulia Lazzarini supporta e gratifica con maestria, nessuna aulicità nel suo dire, nel suo gran recitare. Quell’insieme di popolane madri e massaie della periferia milanese del 1944 oppure quell’infermiera timida e forte, indagata e indagatrice dell’ospedale psichiatrico di Trieste, sono due altre perle che lei dona, con naturalezza, al pubblico ma soprattutto al Teatro italiano.

Certo dopo il grande successo personale per la sua interpretazione della Madre nel film di Moretti, il nome della grande attrice affiora anche sulle labbra dei più giovani, ma per quelli della mia età la Lazzarini è uno dei grandi fili, e chiamateli pure “rossi”, che percorrono con costanza, quasi devozionale, tutta la storia del Teatro dal secondo dopoguerra a oggi.

La prima Lazzarini che ricordo è in un vecchio susseguirsi di lampi grigio-azzurri di un televisore totem nel tinello di casa: protagonista con Tino Carraro e Gastone Moschin de “I miserabili”.       Poi, poi il teatro, con centinaia di tesserine a comporre il profilo di una grande attrice.

Difficile stilare una classifica delle sue grandi interpretazioni. Discreta e al servizio del teatro,  sempre. In “Giorni felici” solo il viso fuori da un mucchio di sabbia, eppure il suo dire, il suo fare “si sparpagliava” per il teatro tutto e come dimenticarsi di quella Gasparina “fuori età” del “Campiello” che con la sua recitazione “normale” entra nei panni della fanciulla, con disciplina e umiltà, e coinvolge ed emoziona.

Nell’immaginario collettivo del pubblico più attempato, fatto anche dai reduci “sbatacchiati” del 68 o giù di lì, Giulia Lazzarini rimane, e non può essere altro, l’impalpabile Ariel appesa a una corda a volare ne “La tempesta” di Shakespeare, nell’allestimento di Strehler  del ’78: piccoli gesti, volatili, leggeri, che invadono spazi fisici e interiori.

Ed è con quei piccoli gesti volatili, leggeri che Giulia Lazzarini, ben aiutata dai testi di Renato Sarti, in un teatro fatto di tante “chiacchiere”, è riuscita a gratificare il “teatro di parola” riaffermando che “sulla scena la vera magia è la parola” soprattutto se a sorreggerla è lei che riesce sempre a “volare”.

Adelio Rigamonti